Il 26 Novembre si è ufficialmente aperta la nuova era della città di Ragusa. Abbandonata la vecchia democrazia, e dopo il coraggioso tuffo nelle braccia dei ragazzi 5 stelle, siamo entrati nell’ambivalenza a tensione energetica, che sarebbe poi un gran casino sentimentale e ideale. In questa fatidica giornata con entusiasmo unanime si recuperava il sacrario della fu Piazza Impero, con tanto di inni, trombe, Piave mormorante, fascia tricolore, finanzieri in alta uniforme autori della riappropriazione storica della commemorazione, e si annunciava al popolo l’acquisto della collezione Arezzo Trifiletti. La politica del doppio sepolcro: se ne apriva uno vuoto – l’Italia liberata lo aveva murato- e lo si riempiva di significati a piacere non più censurabili visto che prevale di questi tempi la concezione ad minchiam dell’intelligenza collettiva ( c’erano anche i quattro simpatici fascisti che non si vergognano di essere tali, da Tuccio Battaglia a Mario Nobile, che commossi recitavano in petto il loro PRESENTE), e se ne comprava – di sepolcro- un altro pieno di vecchie cose come vestiti, sottane, ventagli, della nobiltà siciliana. Memorie aristocratiche e sensibilità fasciste unite in un solo giorno, e non c’è alcun soggetto politico o associazione o libero pensatore che abbia gridato vergogna. Dal Pd a Fratelli D’Italia passando per Città tutti volevano questi abiti che un vecchio professore palermitano, Arezzo di Trifiletti, ha avuto la capacità di sbolognarci al prezzo di 250 mila euro, dopo che da anni queste casse con 4 mila pezzi gli erano rimaste sullo stomaco perché seppur vincolate dalla Soprintendenza – che li aveva valutati una cifra considerevole – non era riuscito mai nel colpo di affibbiarle alla Regione. L’amministrazione grillina stretta e pressata da un coro trasversale – stimolato da Gabriele Arezzo Trifiletti che con un pizzico di buona volontà poteva benissimo disporre una donazione alla città dopo la sua morte – ha ceduto, si è fatta due conti, ha più che dimezzato la cifra e si è tolta da un incubo. La cosa divertente è che i nobili di Ibla, coloro i quali dovrebbero riconoscersi in questa operazione di valorizzazione di un’epoca che li vide protagonisti sono invece i primi a dire che gli aspetti oscuri e polverosi sono assai. La collezione infatti pare sia nata per la capacità del professore Arezzo di presenziare, da appassionato di cose antiquarie, ad ogni svuotamento di palazzo o villino di campagna riuscendo a ricollocare o conservare i vari pezzi conservandosi le piccole cose che nel tempo son diventate un eterogeneo ammasso di bella roba. La collezione è stata quindi ben pompata dal proprietario tant’è che è riuscito nell’intento di piazzarla, ma le vecchie famiglie della nobiltà locale non vedono in questa ricostruzione una autentica e diciamo lineare testimonianza dei fasti del passato. Sarà invidia? Sarà sospetto? Fatto sta che un uomo come Gianni Agnelli che possedeva una collezione meravigliosa di opere d’arte le ha lasciate alla città di Torino, e qui l’aristocrazia in affanno cede le collezioni incassando fior di quattrini. Ha poca importanza se questi vestiti e monili accresceranno le “potenzialità” del castello di Donnafugata e se i danari saranno recuperati. Quel che conta è l’azione sulle masse inconsapevole e univoca; anche se le esigenze erano diverse e contraddittorie, sul piano del potere politico, simbolico e artistico nello stesso giorno si ingloba il culto patriottico, si sacralizzano le reliquie elevandole a patrimonio della comunità, ogni vivacità viene oscurata dalla gloria dei martiri, dallo stupore per gli abiti preziosi, e l’innocenza e la casualità dei due accadimenti sono inghiottite dalla morte monumentale. Ci piace troppo questa tendenza all’impero anche se sbarazzino alla Renzi. Ai nostri grillini in fase di direttorio, e al nostro amabile ragazzo sindaco, segnaliamo che questo stato di morte non è rivoluzionario. Concludiamo con le parole di un Marchese di Palermo che a proposito della collezione ha commentato in via confidenziale: “Che fortuna liberarsi di quel tabbuto!”.
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