Questo l’articolo pubblicato sul Foglio: “Sono un essere umano, non c’è niente di umano che mi sia estraneo. Ho quello che, alla lunga, può considerarsi un vantaggio ed è comunque una differenza: una conoscenza intima della giustizia e della galera. Mettersi nei panni altrui, è un modo essenziale di essere umani, anche nei panni più loschi. Fred Vargas, scienziata e scrittrice, si impegnò senza riserve nella difesa di Cesare Battisti, convinta che un pregiudizio politico pesasse in modo determinante sui suoi processi. Immaginate di essere Fred Vargas e di leggere le parole con le quali l’uomo forte del governo italiano, ufficialmente suo ministro dell’Interno, chiosava la cattura di Battisti: “L’abbiamo preso. E ora dovrà marcire in galera fino all’ultimo giorno”. Nei panni di Fred Vargas, avrei provato orrore e spavento e mi sarei confermato nella mia diffidenza verso lo stato italiano. Non ho letto gli atti dei processi di Battisti e nemmeno i libri che gli sono stati dedicati, non posso dirne niente. Ho sentito il presidente di un’Associazione delle vittime del terrorismo e dell’eversione contro l’ordine costituzionale, Roberto Della Rocca, lui stesso a suo tempo bersaglio di un attentato, uno di quanti si congratulano francamente per la cattura di Battisti, dire questa frase: “Non vogliamo portare qualcuno in galera perché marcisca dietro le sbarre”. So mettermi nei panni di un agente della polizia penitenziaria. Ne ho conosciuti tanti, alcuni spregevoli, alcuni stimabili, di alcuni diventai amico. Dovranno occuparsi di questo Battisti sul quale si è fatto tanto chiasso. È probabile che agli agenti, benché non dipendano dagli Interni ma dalla Giustizia, siano arrivate più forti le parole di Salvini che quelle di Della Rocca. Immagino – potete immaginarlo anche voi – che risonanza possano avere parole simili in chi si proponga, per propria cordiale inclinazione o per zelo di obbedienza o tutti e due, di praticarle. Immagino di sentirle ripetere attraverso lo spioncino, come un divertito ritornello: “Devi marcire fino all’ultimo giorno”. (È una variazione distillata, sofisticata, del più asciutto slogan di stadi e galere: “De-vi mori-re!”). Sono un essere umano, so mettermi nei panni di un parente o un amico di una vittima del terrorismo o dell’eversione eccetera. Oltretutto, le cose andarono così male che restarono pochi a non annoverare qualche “propria” vittima. Ma, a questa distanza dai tempi di cui si parla – almeno quarant’anni fa, per lo più – si è un po’ meno prigionieri dell’opposizione fra “i nostri morti” e “i loro”. Capisco, mi pare, il desiderio dei famigliari delle vittime di vedere chiuso in carcere il responsabile provato – o colui che credono il responsabile provato – del loro lutto. Io però ho da tantissimo tempo, e molto prima che mi riguardasse così da vicino, un’obiezione di coscienza radicale alla galera, salvo quando la reclusione sia il solo modo per impedire a qualcuno di fare ancora del male. Un’abitudine pigra, ma niente è più ostinato dell’abitudine, continua a identificare il risarcimento dovuto alla vittima e alla comunità con la cella. Io provo solo disgusto e vergogna per la cella, con tanta forza che non mi succede mai, nemmeno fra me e me, di augurarmi che le persone che detesto e considero nemiche (ce ne sono, infatti, com’è umano) finiscano loro in galera. Perché la galera, chi la conosca da carcerato o da carceriere, e resti umano, nobilita il prigioniero e contagia di ignobiltà chi la augura. Di nuovo da ieri impazzano gli usi dell’idea di pentimento. Perché le condanne di Battisti, sostiene qualcuno, si fondano sulla sola, e interessata e contraddetta, parola dei “pentiti”. E perché altri dichiarano invece, a suo carico, che Battisti “non si è mai pentito”. Fra questi ultimi ci sono magistrati di grido. Si ripete lo scambio fra la fruttifera delazione (benvenuta, quando serva a sventare delitti) e l’intimità del pentimento. Battisti “non si è mai pentito”? Può darsi: io non lo so, voi nemmeno. La Chiesa, che pure inventò terribili cerimonie pubbliche di penitenza, ha tuttavia messo il pentimento personale al riparo di una gratina di confessionale. Quello che voglio dirvi, per il caso che non ci abbiate ancora pensato, è che il carcere è il luogo più disadatto al vero pentimento. Il carcere è così disumano e cattivo e assurdo da attenuare fino a cancellare la stessa differenza fra innocenza e colpevolezza, da insinuare nel detenuto una sensazione di umiliazione e di offesa che prevale sulla ragione che ce l’ha portato. In carcere si può “pentirsi” solo maledicendo l’accidente che vi ci ha portati: una lezione a delinquere meglio, la volta che ne sarete usciti. Chi attraversi una conversione vera dei propri desideri e della propria vita lo fa non grazie alla galera, ma nonostante la galera. La quale, che lo si voglia oppure si pensi e si proclami di non volerlo, è una vendetta. Bene. La gran maggioranza non pensa così. Pensano molto diversamente da così la grandissima maggioranza delle autorità pubbliche. Alcune hanno già oltrepassato la soglia della stessa legalità formale. Salvini è rivelatore per eccesso, si prende una licenza personale, da buffone di corte promosso a titolare delle guardie in un nuovo carnevale. Ha anche detto, ieri, dopo essere andato a ricevere Battisti all’aeroporto: “Spero di non vederlo da vicino”. Bastava la televisione. Ha fatto capire che sarebbe stato più forte di lui, da vicino, l’impulso a farsi giustizia con le sue mani, tenetemi sennò. Gli agenti penitenziari, quelli nei cui panni mi ero messo sopra, lo vedranno giorno e notte da vicinissimo, Battisti. Speriamo che siano più controllati del ministro. Il quale, se non nei panni, nelle divise loro si mette in posa come nessun altro. Dunque Battisti va in galera, come vuole la legge. Nei limiti fissati dalla legge, bisognerebbe. Ieri ho letto titoli così, di provenienza governativa: “Sarà escluso dai benefici di legge”. Sì, e perché? E da chi? Ci sarà una legge speciale per lui, una lex contra legem? Ricorderei che non occorre essere innocenti per diventare capri espiatori: anche un Battisti colpevole di quei delitti di quarant’anni fa può fare da capro espiatorio del giorno d’oggi. Basta esagerare. Giorni fa alla Camera dei deputati un disgraziato aveva confuso me con Battisti, e si era augurato che io venissi presto estradato dal Brasile per gli schifosi crimini eccetera. Povero deputato: ma il gruppo leghista (quello inquadrato nel video) applaudì energicamente, e la vicepresidente della Camera assicurò che la magistratura avrebbe provveduto. Rischiai di lasciarmi sopraffare dal contagio irresistibile del ridicolo, e fui costretto a pensare per la prima volta seriamente a Battisti. Non solo non me ne sono occupato abbastanza, ma ho avuto a mia volta un forte pregiudizio. Non perché fosse in fuga dalla galera: io non l’avrei fatto, ma non trovo che ci sia una differenza morale, di fronte alla galera ciascuno risponde a suo modo, come ogni animale quando sia braccato. Quanto De André abbiamo ricantato in questi giorni, eh? Quella storia del pescatore che si era assopito all’ultimo sole? De André, anche dopo il Supramonte, non avrebbe detto ai gendarmi da che parte scappava uno che da quarant’anni non avrebbe fatto violenza al suo prossimo. Ma sono solo canzonette, e anche il Vangelo è solo il Vangelo, lo so. Il mio pregiudizio è invece legato all’amore che provo dall’infanzia per Cesare Battisti, quell’altro – “quello vero”, stavo per scrivere, e l’avrei aggravato. Perché l’antipatia che questo Battisti sembra aver coltivato con cura nei propri confronti usciva aggravata da un senso di usurpazione, di sacrilegio quasi (l’altro Cesare Battisti resta avvolto in un’aura sacra). Naturalmente questo Battisti, almeno del proprio nome e cognome non è colpevole. Ma l’idea che un cittadino interrogato oggi su Cesare Battisti probabilmente conoscerebbe più questo che l’altro, e magari cominciasse ad attribuire a questo e alle sue protezioni anche tutti quei nomi di strade, è insopportabile. Ho un legame particolare con la figura di quell’altro, e ieri il mio pregiudizio ha avuto una ricaduta dolorosa di fronte a baffi e pizzo di questo Battisti (non ho capito se fossero cresciuti o finti) e alle fotografie e alle agenzie che lo descrivevano camminare “a testa alta” fra i poliziotti giù dall’aereo. L’altro Battisti – “quello vero”, ma non posso dirlo – barba e baffi, camminava a testa alta, alto però lui stesso una spanna più dei suoi carcerieri, nel cortile del Buonconsiglio avviandosi al patibolo, e l’immagine, insieme all’altra del corpo appeso col boia tronfio e gli astanti ridenti, fu il selfie collettivo che costò davvero all’Austria più di una battaglia perduta. Un’infelice sovrapposizione di nomi e di immaginazioni, e ieri non ho potuto fare a meno di chiedermi se questo Battisti, che dopotutto qualche conto fra sé e sé con l’altro l’avrà fatto, avesse per una volta, nel momento per lui più solenne e chissà quanto aspettato, emulato l’altro, almeno nella barba e nella testa alta. È tremenda la tentazione delle assonanze: la cattura in Bolivia per noi vuol dire il Che, ed ecco un altro, immotivato, impulso di fastidio. Ultima immedesimazione: nei panni di questo Battisti che entra in carcere, oggi, con l’aria che tira, col vento che gli soffia addosso. Questo Battisti dev’essere trattato secondo i doveri e i diritti di qualunque condannato in uno Stato che si vanta di diritto. Sarà tentato anche lui di farsi male da solo, l’ha già fatto, ed esistono tanti modi per un animale in trappola. Gli altri non possono permettersi alcun rincaro. Dal rincaro sono spaventato e inorridito. Ieri, nella cronaca dall’aeroporto di un telegiornale dei migliori, l’inviata dalla pista ha espresso il seguente concetto: questa mattina era un bruttissimo giorno, pioveva a dirotto, e quando l’aereo è arrivato è venuto fuori il sole, e forse questo è un segno…
Articolo di Adriano Sofri pubblicato dal Foglio